Baldassarre De Caro un convinto animalista
Le fonti ci hanno tramandato poche notizie sull’artista, ma l’abitudine di siglare o firmare le sue opere ha permesso alla critica di formulare un catalogo abbastanza corposo della sua produzione, soprattutto negli ultimi anni grazie alla frequente comparsa di tele nelle aste internazionali e sul mercato. Purtroppo è difficile stabilire una precisa cronologia, per la rarità di date(unica eccezione la tela del Banco di Napoli eseguita nel 1715) e per uno stile sempre eguale, nel quale non si riesce ad evidenziare una coerente evoluzione.
Secondo il De Dominici: ”dal quale apprese primieramente a dipingere fiori, de’ quali molti quadri naturalissimi con freschezza e maestria ha dipinto” ed il Giannone, egli nasce nel 1689 e fu tra i più bravi allievi di Andrea Belvedere, per cui, almeno inizialmente pittore di fiori, una veste nella quale non abbiamo molti esempi ad eccezione della celebre serie di quattro vasi divisa tra il museo del Banco di Napoli e la pinacoteca di Bari ed un dipinto(tav. 1) comparso nel 2000 presso l’antiquario Lampronti a Roma del quale parleremo più avanti. Si dedicò in seguito alla rappresentazione di animali e selvaggina morta con uno stile, per quanto venato da ambizioni innovative, piuttosto anodino e monocorde. Con i suoi dipinti incontrò il favore dell’aristocrazia locale e della nascente corte borbonica, come ci racconta il De Dominici:” Baldassar di Caro anch’egli ha l’onore di servire sua Maestà nei suoi bei quadri di cacce, di uccelli e di fiere, come altresì di altri animali, nei quali si è reso singolare, come si vede dalle sue belle opere in casa di molti signori, e massimamente in quella del duca di Mataloni, ove molti quadri di caccia egli ha dipinto… divenendo uno de’ virtuosi professori che fanno onore alla Patria”. E la sua posizione nelle sale dei nobili e dei borghesi la si evince da questa antica quadreria(tav. 2) nella quale in primo piano possiamo ammirare un dipinto, non meglio identificato, che possiamo tranquillamente attribuire al suo pennello. A tali prestigiose committenze appartengono i dipinti che egli ”espose alla festa dell’ottava del Corpus Domini, detta da noi de’ quattro Altari, ove erano rappresentati alcuni uccelli di rapina assai grandi uccisi, e alcun oca morta, pendente, e che posa sul terreno con pochi lumi su, avendo le ali aperte, accordate con erbe, e altri accidenti, come le faceva l’abate Andrea suo maestro”. La sua tavolozza a partire dal terzo decennio, in ossequio al magistero che Francesco Solimena imprimeva a tutta la pittura napoletana, si distinse per un cromatismo più greve e cupo, caricandosi di ombre dense e forti contrasti chiaroscurali, in contrasto con i colori vivaci e brillanti adoperati dai tanti fioranti attivi sul mercato all’ombra del Vesuvio nei primi anni del secolo XVIII. La Lorenzetti definì il De Caro: “un vivo temperamento di pittore, un pungente realista che, con la tecnica di un denso impasto di colore, rappresenta cacciagione, animali, fiori, e, sebbene alquanto ineguale, ebbe grande fama per il suo fervore di naturalista esasperato”. Più severo il parere su di lui del Giannone che scrisse:” fu invero un gran pittore di cacce ed altro. Operò per il passato egregiamente e di poi, o dalle poche paghe o dal suo bisogno, si ridusse ad operar di maniera, che quasi non erano più ricercate le sue opere, faticando per rigattieri. Sul principio dipinse di fiori e di frutta all’uso del suo maestro l’abate Andrea, morse di età avanzata, ma misero”. Solo negli ultimi anni i suoi lavori divennero ripetitivi e stereotipati e non più rispondenti alla nuova moda di un gusto più brioso e leggero, per cui, come riferisce il biografo, perse gran parte della clientela, morendo in miseria nel 1750. Anche i suoi due figli, Giuseppe e Lorenzo(da non confondere col più noto omonimo pittore di figura) furono pittori senza raggiungere il successo del padre. Il Labrot nella sua monumentale ricerca negli inventari napoletani(oggi consultabile su internet) ha identificato un nucleo di famiglie che possedevano dipinti dell’artista: Bonito, Carcani, Cennini, Maio, Pignatelli e lo stesso pittore De Matteis, il quale a volte ha collaborato col De Caro eseguendo figure in alcune sue nature morte come nel Servente ad una battuta di caccia con una contadina ed un cane (fig. 1), firmato, in pendant con una scena simile, nel quale, a dimostrazione del suo eccletismo, prende ispirazione dalle calde e sensuali pennellate del sommo Rubens. I più celebri dipinti di Baldassarre sono i quattro Vasi di fiori di proprietà del Banco di Napoli, esposti al museo di Villa Pignatelli, uno firmato(fig. 2 – tav. 3 ), l’altro datato 1715(fig. 3– tav. 4), mentre gli altri due sono da tempo in esilio presso la pinacoteca di Bari(tav. 5 – 6. ). Le quattro tavole, uguali per soggetto, tecnica e dimensioni, facevano parte della decorazione parietale di un solo ambiente, probabilmente il salone di qualche nobile palazzo napoletano e sono realizzate con una pennellata leggera con colori vivaci, tra i quali predominano il rosso ed il rosa, creando un’atmosfera quasi decadente. Esse rappresentano delle anfore di fattura settecentesca poggianti su un pavimento di mattoni, dalle quali protrudono rigogliosi numerosi fiori variopinti, che contrastano sul fondo scuro, dando luogo ad un effetto decorativo di gusto già rocaille. Tra le opere giovanili va collocato il Giardino con fontana, fiori, anatra e altri uccellini(tav. 1), firmato BdeCaro, in mostra da Lampronti a Roma nel 2000, uno dei rari soggetti floreali, assieme alla serie di quattro vasi di fiori, della collezione del Banco di Napoli, a Frutta, fiori ed uccelli presso una fontana(tav. 7 ) ed a Frutta, fiori ed animali(tav. 8) conservato nel Palazzo Reale di Napoli. Il dipinto romano, se non fosse firmato, avrebbe fatto pensare come autore a Casissa, come tenne a sottolineare Sestieri, per la somiglianza spiccata verso la produzione del comune maestro Belvedere intorno agli anni ’80 del Seicento. Nella tela il De Caro, pur confermando le sue apprezzate doti di animalista, ci restituisce però delle immagini vive, colte nella vitalità del loro dinamismo, con anatre felicemente svolazzanti e fiori di una palpabile leggerezza, mentre i piumaggi sono resi con colori delicati. Il tutto immerso in un’atmosfera da favola con il mascherone da cui zampilla l’acqua ed il tritone, dall’apparenza più viva che scultorea, che sorregge il bacile lobato. Il Trofeo di caccia, zucche e frutta(tav. 9) in collezione Molinari Pradelli, imperniato su un misurato equilibrio tra toni grigi e bruni dominanti, è tra i dipinti più noti dell’artista molto vicino alle due Nature morte di caccia del museo di San Martino(fig. 4) ed a quella conservata in una privata raccolta a Parma(fig. 5). Si evidenzia uno stile ancora nel solco della tradizione del secolo precedente, ma con un vigore compositivo più attenuato e con un cromatismo sobrio e decantato. I piccoli uccelli allineati con l’orcio e la zucca, sono delineati con realismo, ma sembrano già richiamare un gusto non più partenopeo, quanto legato all’allora imperante naturalismo nordico, come si evince chiaramente nelle due Cacciagioni del museo napoletano, nelle quali con stile accademizzante palpabile è l’ispirazione “a modelli fiamminghi mediati da Fyt e da Snyders attraverso Brueghel, in aperta polemica con gli accenti di più spiegata eleganza rococò dell’ultimo Belvedere”(Causa). Le due composizioni vanno collocate al periodo giovanile dell’artista, quando più solida è l’impostazione formale che lentamente, sotto la pressione di una committenza sempre più numerosa, andrà cedendo verso forme di più generico descrittivismo. Una Cacciagione su sfondo di paesaggio(tav. 10 ) conservata nella pinacoteca di Salerno presenta palmari somiglianze con una tela(fig. 5) di identico soggetto della pinacoteca D’Errico a Matera: lo stesso carniere ed uguali gli uccelli cacciati. Un tema frequente nel catalogo del De Caro, il quale soddisfaceva le numerose richieste di una committenza che amava le battute di caccia. Sono numerosi infatti i dipinti nei quali, con minime variazioni, sono descritti: un cane, un fucile e in bella mostra la selvaggina catturata, soprattutto piccoli volatili. Tra i numerosi esempi ne ricordiamo alcuni: uno già nella pinacoteca D’Errico(fig. 7) ed ora nel nuovo museo di Matera ed un altro(fig. 8) già nel palazzo marchesale di Adelfia. La precedente descrizione del De Dominici sembra adattarsi perfettamente a numerose tele del Nostro, tra le quali spicca Selvaggina, fucile e cane da caccia(fig. 9), firmata, impostata sui toni bruni contrapposti alle ombre dense, quasi impenetrabili, della vegetazione sullo sfondo, mentre in primo piano la luce scorre dal manto del cane al piumaggio degli uccelli cacciati. Questo dipinto somiglia in maniera sorprendente alla Natura morta con airone e cane di una collezione privata moscovita(lo stesso cane e la stessa disposizione a terra dei volatili) presentata con altre nature morte alla mostra I tesori degli zar sotto il nome di Lorenzo De Caro, inaugurando per il pittore di figure un’attività anche di generista, ipotesi accolta pure da Pinto nella sua monografia sull’autore e che la pubblicazione di questo lavoro, inedito e firmato di Baldassarre, esclude senza ombra di dubbio. Altre composizioni che si rifanno alle parole del De Dominici, quando accenna alle fiere, sono il Leone e ghepardi(fig. 10) di una collezione romana ed il Combattimento tra rapaci(tav. 11); inoltre la Natura morta con volatili(fig. 11), transitata nel 2000 alla Finarte di Milano, la Natura morta con selvaggina(tav. 12) e le due Nature morte al crepuscolo(tav. 13 - 14 ), la prima in una raccolta privata, la seconda a Benevento nel museo del Sannio. Altre tele importanti che facevano parte della celebre raccolta meridionale sono Una cacciagione di penna e di pelo con due cani(tav. 15), nella quale è palpabile “nel gusto per le accensioni cromatiche dei piumaggi una ripresa neo seicentesca paragonabile a quella che negli stessi anni Tommaso Realfonso realizzava nel campo dei dipinti di fiori”(Lattuada). Si può inoltre riscontrare, come ha sottolineato il Galante chiari riferimenti a modelli del de Coninck, verosimilmente il mediatore dei più antichi esemplari nordici del Fyt, del quale era stato allievo, come si può apprezzare confrontando il dipinto in esame con il Riposo dopo la caccia(fig. 12) conservato a Roma nella Galleria Rospigliosi. Anche la Natura morta con tacchino, frutta e colomba in volo(tav.16 ), in passato ritenuta addirittura opera di Snyders, è tra gli esiti di più alta qualità del De Caro nella resa naturalistica dei piumaggi e nella salda ed intensa tenuta luministica della composizione, che richiama a viva voce la spettacolare Natura morta con oca(fig. 13) della Galleria Narodni di Praga, ben più potente della sua collega immortalata in un altro quadro materano(tav. 17 ). Negli ultimi anni si sono identificati numerosi quadri di Baldassarre all’estero, tra questi segnaliamo due Cacciagioni con uccelli acquatici in Ungheria, una in collezione privata, l’altra presso lo Szepmuveszeti museum di Budapest ed una tela con Lepre ed uccelli in una raccolta di Cambridge pubblicata da Spike. La Lotta tra galli(tav. 18) dalle creste poderose gioca su tonalità scure ed ombrose rese con un impasto denso e corposo da consumato naturalista. Le bellicose figure dei due animali dal piumaggio variopinto risaltano in un’atmosfera campestre altrimenti tranquilla, mentre sullo sfondo, impazienti, le galline attendono con ansia l’esito della tenzone. Galli e galline in un cortile(tav. 19 ) sono anche protagonisti di un dipinto siglato dai vividi colori transitato presso la Finarte di Milano nel 1993. Nel sud, oltre alla collezione D’Errico, vi erano altre famose raccolte che possedevano tele del De Caro come quella del principe di Scilla, che ne contava ben ventotto. Una rarità nel percorso del De Caro è costituita dalla splendida Natura morta di liquori, dolciumi e strumenti musicali(tav. 20)transitata recentemente sul mercato antiquario e che se non fosse firmata potrebbe passare per un quadro di Tommaso Realfonso, memore degli esempi di Giuseppe Recco. Difficile riconoscere i dolci raffigurati, infarciti di miele e di marmellate, i quali erano la gioia dei salotti della nobiltà e della borghesia, ma non mancavano nei monasteri più a la page della città, affollati da fanciulle provenienti dalle famiglie più altolocate della città, che alternavano la preghiera ed il raccoglimento alle delizie del palato, gustando dolci, senza trascurare rosolio, nocillo ed effervescenti bevande zuccherate. Lo testimoniano i documenti di pagamento che zelanti ricercatori, un po’ ficcanaso, hanno reperito nell’archivio del Banco di Napoli.
Giuseppe De Caro
I figli di Baldassarre Giuseppe e Lorenzo, dei quali abbiamo brevemente accennato nella biografia paterna, erano anche loro pittori ed una fortunosa circostanza ci ha permesso di poter predisporre l’inizio di un breve catalogo per il primo dei due, grazie al passaggio presso l’antiquario Lampronti di Roma nel 1986 di una Natura morta con castagne, ortaggi e funghi(tav. 21), siglata JDC, che può essere collegata, come già intuì Ferdinando Bologna nella scheda del catalogo della mostra antiquaria, ad altri dipinti, tra cui uno transitato anni fa sul mercato, raffigurante una Scena di caccia, con un rapace che ha artigliato una lepre ed un serpente che stride, sul cui retro, con grafia antica, si leggeva”Giu. De Caro P. 1775. Lo studioso segnalava inoltre, pur senza identificare nell’autore della tela il figlio di Baldassarre, del quale all’epoca non si conosceva l’esistenza, altri quadri siglati JDC, in particolare un Vaso di fiori in un giardino con un cane che si abbevera a una fontana, già nella collezione del marchese Capomazza a Napoli(foto num. 1064 nell’archivio della sovrintendenza napoletana) ed una coppia di Nature morte con dolci e cibo, già presso l’antiquario Sabatello senior a Roma, il quale, non avendo rivelato la firma JDCaro, le riteneva opera di Realfonso.
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