Il cane tra storia, arte e fedeltà (2°puntata)
Il cane nell’antichità - I graffiti preistorici ci hanno tramandato l’immagine di un cane scattante e snello di corporatura, adatto a snidare ed ad inseguire la preda:il saluki o levriero persiano, che viveva in quella fertile fascia geografica bagnata dal Tigri, l’Eufrate ed il Nilo, abitata da antiche civiltà, presso le quali i cani, nonostante la pastorizia fosse molto diffusa, venivano adoperati unicamente per la caccia e solo ai nobili era permesso di possederli.
A volte erano sacrificati in riti propiziatori e quasi sempre accompagnavano le anime nell’aldilà, simbolicamente, attraverso la figura del dio Anubi(fig. 1), che presiedeva all’imbalsamazione dei cadaveri o materialmente, come dimostrano alcune mummie di cani(fig. 2) trovate al fianco dei potenti padroni. Il faraone Tutankhamon amava farsi ritrarre in compagnia dei suoi cani, come testimoniato in alcuni affreschi o nel famoso Ventaglio(fig. 3) ritrovato nella sua tomba. Da questa antica razza derivano gli odierni greyhounds apprezzati per l’ineguagliabile velocità, accoppiata ad un portamento austero ed elegante, salvo in alcuni casi…(fig. 4). Divenute oggi terre islamiche, nonostante il cane non sia benvoluto nel mondo arabo, i saluki sono considerati un dono di Allah al popolo e vengono impiegati dai beduini per snidare le prede. Nella civiltà greca era molto diffusa agricoltura e pastorizia, per cui il cane trova un utilizzo più ampio, ma il suo regno privilegiato rimane la caccia, come ci tramandano i tanti vasi dipinti, nei quali si evidenzia un antico sodalizio ed in cui a volte compaiono cani ringhiosi con i denti aguzzi bene in vista. E non bisogna dimenticare il cane più famoso, Argo, compagno di Ulisse in interminabili battute sulle verdi colline di Itaca, prima di divenire guardiano della casa in trepidante attesa del ritorno del padrone, che Omero esalterà nei suoi versi quando descrive l’incontro dopo tanti anni, facendoci comprendere il transfert misterioso che lega aldilà dello spazio e del tempo due creature in grado di riconoscersi in una situazione drammatica e di gioire assieme. E allora come sentì vicino Odisseo Mosse la coda, abbassò le due orecchie Ma non poté correre incontro al padrone Ed il padrone, voltandosi si terse una lacrima… Ed Argo, il fido cane, dopo che visto Ebbe, dopo dieci e dieci anni, Odisseo Gli occhi nel sonno della morte chiuse Dopo il V secolo a.C. l’immagine dell’amico fedele cambia ed al posto del guizzante levriero compare un tipo più mansueto, che scodinzola felice ed accompagna il padrone dopo la morte, un’usanza che possiamo constatare nei gruppi statuari di tante tombe, fino all’età gotica e rinascimentale. Presso i Romani, popolo notoriamente bellicoso, il cane si rende utile come guardiano del gregge e della casa, ma anche in operazioni di guerra, come ci racconta Shakespeare nel Giulio Cesare, quando, rifacendosi a fonti dell’epoca, parla di “ cani lanciati contro il nemico(i Galli), i quali a loro volta possedevano razze particolarmente feroci che, munite di collari a punta, si avventavano sui cavalli facendone scempio e provocando cruenti corpo a corpo. Il cane nel medioevo – Per quasi un millennio vi fu una povertà diffusa con interruzione delle vie di comunicazione, invase dalla boscaglia, mentre branchi di cani affamati costituivano un pericolo al pari dei lupi, un vero incubo per gli animali domestici. Nell’arte paleocristiana e bizantina la raffigurazione del cane diventa rara ad eccezione dell’iconografia di san Bernardo, un cistercense, il quale afferma più volte che non si può amare il prossimo se non si ama il proprio cane, di san Rocco, spesso rappresentato con un grazioso cagnolino, l’unico a procurargli il cibo quando tutti lo abbandonarono perché ammalatosi di peste o di San Cristoforo cinocefalo(fig. 5). Una grande personalità come san Domenico(fig. 6), fondatore di uno degli ordini monastici più prestigiosi, verrà spesso raffigurato alla nascita con un cane pezzato, recante tra le fauci una candela accesa, simbolo del fuoco che presto avvamperà la stessa Chiesa. Sarà poi Giotto in epoca tardo medioevale nella cappella degli Scrovegni a fornirci un’immagine di rara commozione con il cane di Gioacchino che cerca di consolare il padrone con uno sguardo di genuina intensità, un riconoscimento alla sua disponibilità a stare vicino all’uomo nei momenti più difficili. Dagli affreschi si passerà agli eleganti codici miniati, nei quali compare una figura di cane divenuto marchio di supremazia per i vari signorotti adusi a dilettarsi in fantasmagoriche battute di caccia e vedremo anche un revival di catture di animali feroci come i leopardi in una preziosa pergamena(fig. 7) di scuola francese del XV secolo, conservata a Parigi nella Biblioteca nazionale. Un altro codice del museo Condé di Chantilly ci permette di ammirare non solo varie razze diffuse all’epoca, quanto l’attenzione da parte dei padroni verso i loro compagni, che, anche se ben trattati ed alimentati, non sono esenti dalle malattie e necessitano perciò di essere curati(fig. 8). Nello stesso tempo vi è poi un altro libro miniato ispirato alle punizioni infernali nel quale cani mordaci sono alle prese con le parti intime di alcuni dannati(fig. 9), ai quali infliggono una orribile pena. Il cane nell’Umanesimo e nel Rinascimento – A partire dal Quattrocento il cane comincia a trovare un posto fisso nelle case borghesi, una vera e propria moda che interessa in genere esemplari di piccola taglia, immortalati in dipinti, anche di artisti famosi, ai piedi della famiglia dei padroni o tra le braccia di candide fanciulle e severe signore. Naturalmente il levriero rimane il sovrano delle cacce, amate dai nobili, alcuni dei quali stranamente presentano dei nomi ispirati all’amico sincero: Castruccio Castracani(fig. 10), Cangrande della Scala, addirittura Mastino. Alcune razze cominciano a specializzarsi per confrontarsi con i cinghiali, mentre i collari di protezione diventano sempre più preziosi e decorati, accoppiati a volte a vere armature di protezione. Anche l’udito ed il fiuto tendono a divenire più fini ed i bracchi sono i preferiti per la caccia ai volatili, alle lepri e alle volpi. Alla corte di Francia vi erano splendide mute di levrieri e di mastini, dei quali conosciamo, grazie a pignoli inventari, nomi e genealogie ed ai quali poeti cortigiani dedicavano commossi epitaffi, quando cadevano nell’espletamento del loro lavoro. Una passione aristocratica che sarà viva a lungo nella cultura cavalleresca francese, come testimonia un aforisma di Robert D’Humieres di epoca successiva:”Quando i vecchi levrieri non cacciano, sognano di cacciare”. La più spettacolare scena di caccia notturna ci viene offerta da Paolo Uccello(fig. 11), nella quale cervi e levrieri si confondono nel buio della vegetazione, mentre cavalieri e battitori si affannano freneticamente, anche se la perizia dell’artista riesce a bloccare l’azione in una atmosfera atemporale. Anche l’iconografia religiosa partecipa all’esaltazione delle virtù canine, come nella celebre tela del Pisanello, già autore di una splendida museruola(fig. 12), raffigurante un prode cavaliere, condotto nel buio di una selva da un cervo, le cui corna si trasformano improvvisamente in un crocifisso(fig. 13), segnando una conversione del nobile, il quale da allora assume il nome di S. Eustachio e diviene il patrono dei cacciatori. Alla scena sono presenti cani di razze differenti, di solare bellezza e dalla corporatura slanciata, ignari del prodigio che avviene sotto i loro occhi. Un’altra scena imperniata sulla ferocia canina è la trasposizione tragica di una novella del Boccaccio, Nastagio degli Onesti, operata dal Botticelli in un ciclo celeberrimo, con denti aguzzi conficcati nella tenera carne di una fanciulla ignuda(fig. 14), colpevole di aver rifiutato le profferte amorose di un temerario cavaliere. Durante il Rinascimento si afferma sempre più il cane da tenere in grembo, una prerogativa delle ricche ed annoiate signore dell’aristocrazia e l’eco di questa diffusa abitudine trova riscontro, non solo nelle tele dei pittori, ma anche in letteratura, dove più o meno scalcinati poeti di corte attestano il successo della nuova moda con versi paludati ed adulatori. Anche opere celebri come il Cortigiano, una sorta di galateo dell’epoca, fornisce opportuni consigli su come accarezzare il proprio cane in pubblico. Distrattamente, ma avendo cura di toccarlo nei punti per lui più piacevoli. Cominciano ad essere stampati trattati di veterinaria dedicati esclusivamente al cane e tra questi possiamo ricordare nel 1547 quello di Sforzino da Carcano, uno studioso veneziano o l’Alcone, frutto delle conoscenze sull’argomento di Girolamo Fracastoro, tradotto dal latino in molte altre lingue. Anche all’estero sono pubblicati libri specializzati come il De Venatione libri III da parte del Manunzio, i Praecepta educationis regiae, con un capitolo dedicato alla caccia ed alle malattie dei cani e in controtendenza un trattato Der Jagdteffel, nel quale la caccia viene vista come un’attività diabolica aizzata da Satana in persona. Alla corte dei Gonzaga a Mantova, Isabella d’Este dà incarico ai poeti di corte di commemorare in una serie di sonetti la morte della sua cagnolina Aura, precipitata da un davanzale nel tentativo disperato di sottrarsi alle insistenti profferte sessuali di un focoso randagio. Tra i pittori Tiziano, sincero estimatore del cane, lo colloca in numerosi suoi dipinti a fare compagnia ad adulti e bambini, intriganti fanciulle nude e potenti imperatori. Naturalmente per ogni occasione sceglie una tipologia diversa, a partire dal suo autoritratto, posto sotto un esemplare da caccia nell’Allegoria della prudenza, per proseguire con l’imperatore Carlo V che accarezza il garrese di un molosso irlandese incuriosito impudentemente del suo poderoso parapalle(fig. 15), la piccola Clarice Strozzi divide il dolce con il suo minuscolo compagno di giochi, la prosperosa Venere sdraiata(fig. 16), nel capolavoro conservato agli Uffizi, si lascia placidamente ammirare da un distratto epagneul o cerca disperatamente di trattenere presso di sé Adone in partenza per una fatale battuta al cinghiale nella quale troverà la morte ed infine l’impaurito bambino smarrito nel bosco troverà conforto alla sua paura nello sguardo rassicurante di un cane di grossa taglia, che osserva intenerito una cucciolata alle prese con un competitivo allattamento. Numerosi sono i dipinti dedicati al tema e non possono essere segnalati tutti, ma vogliamo almeno ricordare il celebre Cacciatori nella neve di Pieter Brueghel il vecchio, in cui una serie di cani, stanchi ma soddisfatti, ritornano a casa con i padroni in un gelido paesaggio nordico, la tela di Jacopo da Bassano conservata al Louvre, dove i cani rappresentati hanno la dignità di un ritratto con il carattere evidenziato con cura, l’uno placido, l’altro iracondo ed infine la Diana della scuola di Fontainebleau, somma personificazione della caccia, con arco e faretra ed in compagnia del suo agile levriero che si avvia verso la foresta. Achille della Ragione
|