Napoli: L'amore all'ombra del Vesuvio
Nel famoso dizionario filosofico di Voltaire la voce “amore” è seguita da “antropofago” ed è imbarazzante passare da persone che amano ad individui che divorano i propri simili. Un anomalo dualismo che, all’ombra del Vesuvio, si attua da sempre nei confronti dei bambini, in molti casi oggetto di un amore assoluto ed incondizionato, ma altre volte abbandonati o sfruttati: un’antinomia che, come sempre, esprime le contraddizioni della città. Ma non è di questo amore che vogliamo trattare bensì del fuoco delle passioni che, nei secoli, si è manifestato in un luogo vulcanico e tellurico per eccellenza sotto forma di seduzione, adulterio, incesto, fino all’amore saffico.
Non possiamo non partire dalle avventure galanti di Giacomo Casanova, a lungo attivo a Napoli nelle sue scorribande erotiche, che s’invaghì di Leonilda, una procace fanciulla, ufficialmente amante del duca Carlo Pignatelli di Monteleone, di cui il seduttore veneziano era ospite. Decise di chiederla in moglie e si recò dalla madre per chiedere ufficialmente la sua mano. Lucrezia, mamma della giovinetta, era stata in precedenza “passata per le armi” dal focoso Giacomo ed il frutto degli amplessi era stato la nascita di Leonilda per cui l’idea del matrimonio si spense sul nascere. Ma non tramontò mai il desiderio di possedere la fanciulla e l’occasione per passare dalle aspirazioni ai fatti si presentò nel giardino di un vecchio gentiluomo anziano ed impotente, che aveva sposato la bella Leonilda, ancora vergine, perché anche il precedente amante era, come suol dirsi, “lasco di reni”. Tra il profumo dei fiori ed all’ombra dei cespugli, si consumò l’incesto che fu talmente dolce da far nascere il desiderio irrefrenabile di ripeterlo, cosa che avvenne molte altre volte, complici altri luoghi e con la partecipazione della mamma della fanciulla. Dopo un amore peccaminoso, narriamo un amore casto ed infelice, quello che sbocciò tra Giovan Battista Pergolesi, il celebre musicista, e la fanciulla di una nobile casata, del cui nome non siamo certi. Sappiamo, però, che i fratelli, per il suo diniego a sposare un aristocratico, costrinsero la giovane a prendere i voti, rinchiudendola in un convento nel quale, per il grande dolore, in meno di un anno, rese l’anima a Dio. Pergolesi ne diresse la messa funebre per morire anche lui, dopo pochi mesi, a soli ventisei anni nel 1736, consumato dal mal d’amore e dalla tisi. Due regine napoletane, Giovanna I e Giovanna II, spesso confuse tra loro dalle leggende, occupano un posto di rilievo nell’immaginario erotico partenopeo per le loro imprese al di fuori del talamo nuziale ed infiniti sono i racconti che le vedono protagoniste. La prima si sposò con il cugino Andrea d’Ungheria, all’età di sette anni, motivo per cui fu rinviata di dieci anni la consumazione del matrimonio, periodo durante il quale Giovanna non rimase inoperosa, concedendo le sue grazie al figlio della sua vecchia nutrice e ad un cugino, particolarmente dotato. Rimasta vedova a soli diciannove anni, si consolò con vari amanti, prima di riconvolare a nozze con un cugino, morto dopo poco in circostanze misteriose, il cui posto fu occupato ancora da un altro cugino, Giacomo II di Majorca, spesso assente da casa, periodi che la regina occupava piacevolmente accoppiandosi democraticamente con dignitari ed inservienti. Dopo tanti anni dedicati all’amplesso, la regina chiuse la sua esistenza in carcere, legata mani e piedi, ed oggi riposa nella chiesa di Santa Chiara ma siamo sicuri che la sua anima inquieta vaga ancora alla ricerca dell’eros. Infiniti sono gli amanti attribuiti all’altra regina di nome Giovanna, sorella di Ladislao, che ebbe anche quattro mariti ed alcuni favoriti famosi, come ser Gianni Caracciolo, assassinato dal popolo. Molteplici racconti accreditano la leggenda che Giovanna II si accoppiasse ripetutamente con giovani popolani, che, dopo aver soddisfatto le sue voglie insaziabili, venivano gettati in un pozzo, ancora esistente in Castel Nuovo, e venissero divorati da un famelico coccodrillo, uccisioni che la regina, novella mantide religiosa, provocava per tutelare il suo buon nome. “Questa macabra leggenda ha ampliato sempre più l’idea di una figura femminile che, pur di soddisfare il proprio piacere, fosse priva di qualsiasi morale; ponendo quindi in secondo piano quella reale di fiera combattente che difese strenuamente, assieme al fratello Ladislao, il trono dei Durazzo (Aurelio De Rose). In epoca più recente una terza regina chiacchierata fu Maria Carolina, moglie di Ferdinando IV, il famose re “nasone”, al quale diede ben diciassette figli. Il sovrano era notoriamente solito dedicarsi a bettole e bordelli, trascurando gli obblighi del talamo e la regina lo sostituiva degnamente concedendosi a vari amanti, più o meno ufficiali, dal Principe di Caramanico a John Acton, senza disdegnare rapporti occasionali con soldati e popolani. Per alimentare i trastulli faceva a volte originali scommesse, come quella con la Marchesa di San Marco. La posta stabilita fu un prestigioso anello di diamanti in premio a chi delle due avesse guadagnato di più prostituendosi nel bordello di San Camillo, tenzone che vide sconfitta Maria Carolina per 18 ducati contro 14. Non contenta dei rapporti biblici e dando credito al carteggio intercorso tra la regina e la moglie di Lord Hamilton, non volle privarsi del brivido di provare anche le sensazioni degli amplessi cari alla poetessa Saffo. Tutti i napoletani conoscono “La Floridiana”, uno dei pochi polmoni verdi della città, ma pochi sanno che il nome le deriva da Lucia Migliaccio, figlia del Duca di Floridia, che sposò, con rito morganatico, il re Ferdinando IV da poco vedovo. Come grosso dono d’amore,ed in omaggio alla sua bellezza,il re regalò alla duchessa la splendida e lussureggiante villa vomerese, già proprietà del ministro Saliceti, che, in omaggio alla nuova proprietaria,assunse la denominazione de “La Floridiana”, un luogo ameno dove la nuova sposa si ritirò accudendo i figli di un precedente matrimonio, senza dedicarsi alla vita di corte, concedendo al sovrano di vivere dieci anni in pace e serenità. Concludiamo questa cavalcata tra amori di ogni genere parlando degli amori contrastati dalle famiglie che spesso si concludevano con la segregazione forzata delle giovani fanciulle nei monasteri cittadini. Le giovinette si maceravano per anni e spesso morivano di crepacuore. Quella che brevemente raccontiamo, sulla base di quanto scritto dal nostro amico Aurelio De Rose, è una storia d’amore e morte, condita da lacrime e disperazione. Una novizia di nome Candida, monacata a viva forza, non voleva accettare l’idea di rinunciare al suo amato e questi, pur di vederla, si fece rinchiudere in una cassa di legno che doveva contenere un clavicembalo. L’ingombrante “pacco” giunse al monastero ma le monache lo lasciarono in giardino, non riuscendo a trasportarlo fino alla cella di Candida. L’indomani, aiutate dal giardiniere, vi riuscirono ma, quando la novizia aprì la cassa, si accorse che il suo bel Giacomo era morto, asfissiato durante la notte. Non le restò che portare ogni giorno un fiore alla sua tomba, posta sotto ad un pino,e raggiungerlo in breve tempo, distrutta dal dolore. Achille della Ragione
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