Napoli: I bassi e l'economia del vicolo
Il basso, “vascio” in vernacolo, è una piccola abitazione a pian terreno che si affaccia sulla strada, icona dell’atavica miseria degli strati sociali più emarginati della città, luogo di confine dove pubblico e privato si confondono, intreccio di vivacità e disagio esistenziale, gioia e dolore. I bassi hanno una lunga storia che affonda le proprie origini nel medioevo. Nel corso dei secoli questi luoghi sono stati teatro di tragici avvenimenti della storia di Napoli, come le numerose epidemie di peste e colera, causate dalle precarie condizioni igieniche.
Evacuati e sbarrati durante il fascismo, furono di nuovo occupati durante la guerra ed ancora oggi sono presenti, non solo nel centro antico, ma anche in quartieri popolari di recente costruzione. Vicoli e vicarielli costituiscono da sempre il cuore pulsante della città, paradigma della cultura in plein air radicata nell’anima popolare dei napoletani, con panni stesi ad asciugare al sole tra edicole di santi ubiquitarie. Matilde Serao li definiva “case in cui si cucina in uno stambugio, si mangia nella stanza da letto, mentre altri dormono; case in cui sottoscala, pure abitati da gente umana, rassomigliano agli antichi, ora aboliti, carceri criminali della Vicaria”. Eduardo, nelle sue tragiche commedie ambientate tra i bassi dei Vergini, di Forcella, del Pallonetto, li descrive come tuguri dove il sole appena trapela, abitati da molti che non hanno mai visto il mare, con il sottosuolo invaso dalle acque putride delle fogne e strade invase già alle cinque del mattino da una torma di scugnizzi alla ricerca di aria, luce, spazio vitale. Nel dopoguerra, la caustica penna di Malaparte lo trasforma in un luogo da tragedia greca con esalazioni mefitiche che emanano in egual misura da osterie e friggitorie e dagli orinatoi annidati in ogni angolo dei quartieri, un lezzo nauseante tra cacio di pecora e pesce putrefatto. La nascita del basso si perde nella notte dei tempi: li descrivono Boccaccio, Masuccio Salernitano e lo stesso Basile nel “Pentamerone”, ma solo nell’ottocento diviene il palcoscenico di tanti romanzi, da Mastriani fino alla Jessie White Mario, al Villari, a Rea, a Marotta. Nei secoli, dal buio dei vicoli, sono scoppiate le più svariate epidemie, non solo peste e colera, ma anche vaiolo, tifo, poliomelite, epatite e salmonellosi, sempre tra luglio ed agosto quando il caldo soffocante ringalluzzisce virus e batteri. Anche dopo l’unità d’Italia vi furono devastanti epidemie di colera fino a quella famigerata del 1884, che indusse il governo a sventrare il centro antico. Sotto il piccone risanatore caddero fondaci e bassi ma anche decine di chiese, inclusi dipinti ed arredi sacri. Solo durante il fascismo, che chiuse tutti i bassi, vibrioni e simili ebbero una sosta ma fu il tifo petecchiale a divampare nel periodo d’occupazione alleata: per debellarlo, gli americani somministrarono ai napoletani, disposti pazientemente in file ordinate, generose dosi di DDT su capelli ed abiti. Ultimo, ma solo in ordine di tempo, il colera del 1973, un primato di cui vergognarsi ora che crediamo di vivere in Europa. Quanti sono attualmente i bassi? Nel 1881 erano più di ventimila e vi abitavano 100.000 napoletani, nel 1911 erano saliti a 40.000, nel 1931 erano ancora aumentati di numero ed ospitavano ben 220.000 corpi di tutte le età. Alla fine degli anni cinquanta erano arrivati a quota 65.000, attualmente non sono meno di 40.000. Oggi vi si trova costantemente il televisore a colori, il frigorifero, la lavatrice ma il degrado fisico e morale è sempre molto alto. Il sostanziale cambiamento è avvenuto sotto il profilo sociale. Vi sono sempre tanti napoletani ma in alcuni quartieri i nuovi abitanti sono extracomunitari, che tendono a suddividersi per nazionalità ed oramai in alcune zone della città si parlano solo idiomi alieni. Questa variazione antropologica ha mutato radicalmente anche l’economia del vicolo, accompagnata dalla scomparsa di tanti mestieri tradizionali che davano luogo ad un microcosmo autonomo ed autosufficiente. Figure di ambulanti come il cenciaiolo, il mozzonaro, la balia, la levatrice la lavandaia, l’ovaiola vivono ormai solo nei dipinti dell’Altamura e dei Palizzi, che li hanno immortalati. Le lavandaie che provenivano quasi tutte dal Vomero, ricco all’epoca di ruscelli, sono state soppiantate dalle onnipresenti lavatrici. Le serve, oggi, sono tutte extracomunitarie, spesso ammantate nei loro variopinti costumi. Le capère hanno trovato nei negozi di parrucchiere un ostacolo insormontabile. Ma la vittima più illustre della radio e della televisione è stato il cantastorie. Alcuni scrittori ce lo descrivono con un frac d’annata e gli occhi spiritati mentre declama episodi dei poemi più famosi e storie fantasiose di vita vissuta. Gli ultimi che ancora fanno qualche sporadica apparizione sono i burattinai, eredi dei mitici pupari. Tanti mestieri scomparsi, che riuscivano a far campare ed oggi infoltiscono tristemente le legioni sempre più numerose di disoccupati e precari. Achille della Ragione
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